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Imagine the pleasure of immersing yourself in nature and giving a new value to your time, among woods, valleys, rivers and alpine lakes.
Between an excursion in the mountains, moments of relaxation at the lake, convivial breaks while tasting our Deco porducts, you will find well-being and balance.
Breno offers you a mix of nature, culture and traditions, in the heart of the Italian Alps, between the lake and the snow.
UN PO' DI STORIA
Situata nel cuore di Piazza Ronchi a Breno, la storia di Casa Franceschetti è strettamente connessa con quella della piazza che la ospita. Edificata attorno alla seconda metà del Settecento, ospitava la famiglia di Lorenzo Ronchi, notaio del paese. Già considerata una delle dimore più in vista dell’epoca, il suo prestigio crebbe grazie all’apertura di Piazza Ronchi, sede del mercato settimanale del bestiame a partire dal 1825, che permise a Breno di contrapporsi “vittoriosamente” a Cividate circa l’ubicazione di quest’ultimo (luogo di incontro per concludere affari anche su altri prodotti, quali burro, lane, legname, ferro). Dovendo attrezzare uno spazio adeguato all’importanza della manifestazione, fu individuata la zona ai piedi del Castello e nel giugno 1826 il perito Celeri stese “un progetto di sistemazione dell’ampio perimetro, prevedendone lo spianamento accompagnato dalla demolizione di alcuni muri di cinta”.
Il Piazzale fu attivato nel 1828 ma molteplici furono gli interventi successivi per eliminare l’eccessiva pendenza, per compattare il terreno, per ovviare alle opposizioni di alcuni privati, per “circuire con frequenti e fitti paracarri” muniti di anelli l’intera area “per assicurare i bestiami”. Si giunse solo nel 1842 al collaudo definitivo.
L’esterno ne denota il passato signorile: l’ingresso è delimitato da una cancellata in ferro battuto che nasconde un ampio cortile, allora depositi e le rimesse per le carrozze; in una nicchia, è tuttora presente la bella fontana in granito. Il corpo dell’edificio si sviluppa verticalmente su quattro, mentre orizzontalmente presenta un corpo centrale da cui si diramano un’ala destra e una sinistra. Nella facciata l’affresco “trompe d’oeil” di una donna in abiti da inservienti. All’interno, affreschi recentemente restaurati dopo un rovinoso incendio dell’ala destra.
ULTERIORI INFORMAZIONI
Sulla piazza si affacciava anche la bella villa voluta dal notaio Lorenzo Ronchi alla fine del XVII secolo. Inizialmente la casa era abitata nell’ala destra (per chi osserva la costruzione dalla piazza) mentre l’ala sinistra vedeva al piano terra, le stalle per i cavalli, i depositi e poi le stanze del fattore e dei contadini.
Alla morte di Lorenzo ereditano i due figli Pietro, notaio e Andrea, possidente. Nel cortile, a fianco di una bella fontana in un unico blocco di granito, si aprono due rimesse per le carrozze. Nell’ala destra abita Pietro mentre Andrea sistema ad abitazione per la famiglia l’ala sinistra.
La struttura presenta una planimetria a ferro di cavallo con cortile centrale chiuso da un portale a tutto sesto in pietra serena. L'accesso, con ghiera con conci in finto bugnato e paracarri in granito, è chiuso da una cancellata in ferro battuto con rosta raggiata. L'intero prospetto esterno è dipinto con quadrature architettoniche e trompe d'oeil raffiguranti un uomo e una donna che si affacciano sulla piazza. Nel cortile è conservata una fontana ricavata da un unico blocco di granito e ai lati si aprono due grandi vani che servivano come rimessa per le carrozze. Già nel XVIII secolo il palazzo è diviso tra i due figli di Lorenzo Ronchi - Pietro e Andrea - i cui eredi manterranno la divisione del palazzo nelle due ali affacciate sul cortile. L'ala sinistra conserva arredi e cimeli di famiglia, mentre quella destra, anche a seguito di un incendio, è stata più volte rimaneggiata. Gli attuali proprietari sono intervenuti con un attento restauro conservativo, che ha portato alla luce due diversi livelli nella decorazione dei soffitti: due strappi - verosimilmente dell'intervento novecentesco - sono ora esposti nelle sale al secondo piano, mentre le pitture di fine Ottocento a motivi floreali ed ornamentali, sono state riportate alla luce in una sala attigua.
Al piano terra, di poco sotto al piano di calpestio della piazza, trovavano posto le cantine. Un curioso affresco datato 1682 mostra una scena conviviale con uomini in abiti contemporanei (che ne mostrano lo status sociale) e paggi dai variopinti costumi. Il cartiglio recita: "Aedamus et bibamus quia post mortem nulla voluptas. Chi brama esser fedel servo di Bacco, mangi ben, beva ben, prenda tabacco. 1682".
Andrea sposa Orsola Rusconi da cui nascono due figlie Antonietta e Giulietta. Antonietta sposa l’ufficiale dei Carabinieri Nanni da cui nasce Angelica Nanni. Angelica sposa Giacomo Franceschetti da cui nascono 4 figli: Franco, Rita, Fausto ( morto a 7 anni di meningite), Antonio.
Franco sposa Lina Pelamatti da cui nascono tre figli Giacomo, Angelo e Bianca Maria. Franco, “ragazzo del 99” è arruolato durante la prima guerra mondiale, mentre ancora frequentava la terza liceo classico, e per questo, ma anche in virtù degli ottimi voti riportati durante il percorso scolastico, al termine della guerra può iscriversi all’università, facoltà di ingegneria , pur senza aver sostenuto l’esame di maturità! (Ben più gravoso di un esame naturalmente il duro servizio militare prestato!).
Il giovane Franco fu anche Ufficiale volontario dei Vigili del Fuoco, come ben attestato da alcuni documenti degli anni 40 tra cui un verbale di consegna dei materiali antincendio indirizzato al Corpo Vigili del Fuoco, Distaccamento di Breno. (31.12.1940/ XIX) . Al Distaccamento di Breno, capoluogo, facevano riferimento anche le frazioni di Astrio, Niardo, Pescarzo, Losine. Nella seconda guerra mondiale è capo dei servizi segreti in Albania e Grecia (in un documento del 25.10.1941/XX) viene definito “Soldato e gentiluomo di moltissimo rendimento”. Dopo il 1943 entra a far parte della Resistenza, divenendo capo di stato maggiore delle Fiamme Verdi.
Attualmente l’ala sinistra della casa, costruita dal notaio Lorenzo Ronchi, è abitata da Giacomo e dalla vedova di Angelo, Laura Bassi con i due figli Francesco e Gian Andrea.
Nelle stanze attualmente abitate da Giacomo, sono presenti tante tracce del passato, con arredi originali dell’800, come la bella caminiera in legno intarsiato assemblata della bisnonna Antonietta; la lavorazione ricorda infatti i fregi della cassa-panca collocata nell’ingresso. Su una vecchia sedia un curioso cuscino da carrozza con una tasca inferiore porta denaro!
Alle pareti, fra gli altri, quadri dipinti dalla nonna Angelica accanto ai ritratti del bisnonno Nanni e della bisnonna Antonietta. Il ritratto del bisnonno Francesco Franceschetti è collocato in un salottino in cui è facile pensare di essere tornati indietro nel tempo. E’ interessante ricordare che i Franceschetti sono originari di Precasaglio, giunti poi a Pianborno ed a Esine; a Breno giunge Franco Franceschetti, papà di Giacomo.
Merita attenzione un dipinto (non firmato, ma sicuramente attribuibile al pittore G. Battista Nodari che aveva lo studio al terzo piano della casa) con il ritratto di due vecchi, uno per ogni lato del dipinto.
Quando non era possibile avere tanto materiale a disposizione l’artista sapeva esercitare la sua arte anche “risparmiando”!
UN PO' DI STORIA
Villa Ronchi, oggi palazzo municipale di Breno, fu progettata e realizzata da Fortunato Canevali sullo scorcio del secolo XIX, come residenza per l’ingegner Giovanni Antonio Ronchi (Breno, 1841-Brescia, 1914), di antica discendenza e che aveva avuto grande fortuna economica a Roma come impresario di costruzioni stradali, ferroviarie e abitative, grazie all’amicizia con Giuseppe Zanardelli, e che fu socio fondatore e primo direttore della Banca di Valle Camonica (1872-1873) e in seguito anche presidente (1904-1913). Se Arturo Cozzaglio, descrivendo in modi romantici il suo ideale percorso di viaggio in Valcamonica, ricorda a Breno i “giardini e ville, che hanno per sfondo un bellissimo panorama dalle balde punte di granito”, parte del merito è anche della nascente villa Ronchi, situata nella nuova via S. Martino.
D’ispirazione tardo-neoclassica, la struttura del fabbricato è caratterizzata da estrema razionalità, che trova contrappunto in alcuni essenziali elementi decorativi connotati da una sfumatura d’eclettismo di fine secolo XIX, e si presenta distribuita su quattro livelli: il seminterrato, il piano rialzato, il primo piano e il sottotetto abitabile.
Le imponenti fondamenta, in parte poggianti direttamente sulla roccia che degrada verso nord, hanno permesso la costruzione delle ampie cantine dalle volte a botte, che richiamano la tradizione costruttiva tipicamente locale, con i volti alla base dell’edificio.
La facciata principale, sin dal notevole ingresso monumentale a gradinata simmetrica, è particolarmente ricca di misurati elementi decorativi: i pilastrini della balaustra da cui si diparte la raffinata presenza delle colonne di ghisa, cariche di eleganza formale, ma funzionali alla portata della balconata superiore; le ringhiere di ferro battuto, gli eleganti ed ampi balconi; unico elemento puramente decorativo il fregio con le iniziali R(onchi) G(iovanni) A(ntonio), al centro della facciata principale, vezzo antico che ricorda l’importanza della casata.
L’interno, dallo schema caratterizzato dal corridoio centrale che si collega ai locali laterali, è pensato per una signorile residenza e si presenta sontuoso. Nel piano seminterrato erano collocate le cucine, collegate alla superiore sala da pranzo attraverso un montacarichi passavivande, la dispensa e alcuni vani accessori.
Al piano nobile, dopo l’ampio ingresso principale, nel cui soffitto è dipinta una composizione geometrica e floreale che racchiude gli stemmi delle maggiori città italiane, a simboleggiare l’unità d’Italia (da sinistra: Venezia, Napoli, Bologna, Firenze, Roma, Milano, Palermo, Torino), trovavano posto le stanze della zona-giorno, con l’elegante salone destinato all’ascolto e all’esecuzione della musica (ora sala del consiglio comunale) cui la famiglia brenese era particolarmente dedita, affrescato da Ponziano Loverini (Gandino, BG, 1845-1929) con l’Allegoria della musica drammatica (1895): in figura di donna, posta nel cielo sopra un nimbo rosato al centro della composizione, che guarda verso l’alto, il capo cinto d’alloro e circondato dalla luna piena e da una stella (perché fonda la sua armonia nei cieli), la Musica tiene nella mano una cetra d’oro e ha ai suoi piedi uno stiletto e una maschera tragica; a lato alcuni putti suonano strumenti musicali e sopra, portati da un raggio di luce, due amanti sono rapiti in un bacio appassionato; al di sotto, un’aquila volante, simbolo dell’ingegno, reca nel becco un serto di alloro ai compositori (in cui si riconoscono G. Verdi, G. Rossini, V. Bellini, A. Ponchielli, G. Donizetti, P. Mascagni e G. Puccini) che si affacciano da una balaustra, coperta da un drappo rosso e posta su una scalinata degradante, su cui siede un putto, posto su un cuscino di velluto blu, che mostra un volume con l’iscrizione “MUSICA DRAMMATICA”. Nel salone erano anche collocate due grandi tele ( rimaste in proprietà agli eredi), dello stesso maestro, raffiguranti episodi teatrali della Favorita di G. Donizetti e del Rigoletto di G. Verdi, del 1897.
Ancora sullo stesso livello vi era la sala da pranzo (attualmente ufficio del sindaco), impreziosita dagli stucchi di Canevali, rappresentanti, in un tripudio di decorazioni con putti, naiadi e fauni che si fondono con elementi vegetali, fiori, frutta e volatili, l’Allegoria del brindisi (1896), accanto erano posti anche il salotto ed uno studiolo. Al primo piano vi erano le camere, i guardaroba ed alcuni salotti; nell’ampio sottotetto erano poste i locali della servitù e alcuni guardaroba. Molte stanze presentano affreschi, di autore anonimo, con motivi decorativi geometrici, floreali, naturalistici, paesistici e fantastici di gusto pre-liberty, che ricordano gli affreschi che erano presenti nel palazzo brenese dell’avvocato Paolo Prudenzini. Le stanze erano poi arricchite da sculture lignee e intagli, ad opera di Canevali, in parte ancora oggi visibili nella loro sistemazione originaria, come l’appendiabiti, la specchiera ed il copricamino, da mobili preziosi, quadri, arazzi, camini e lampadari di vetro di Murano e di ferro battuto che in gran parte sono stati svenduti nel 1946 e in parte si sono perduti per l’incuria o per la scaltrezza di qualcuno.
Rimane, ancora posta nell’atrio, la grande tela con scritta “Opera del Cavalier Andrea Celesti” (Venezia 1637-Toscolano BS, 1712), più probabilmente di autore anonimo del secolo XVIII, raffigurante Mosè salvato dalle acque, lasciata in dono al Comune di Breno dalla signora Cattina Ronchi in Romelli, in ricordo dei figli.
Il palazzo fu completato con i pavimenti lignei posati dalla ditta Ongaro di Breno, quelli in tessere policrome dovuti alla ditta Pedretti di Bienno su disegno dell’architetto Mario Ippoliti (Ossimo 1893-Breno 1988) nel 1937, quelli in graniglia al primo piano, in cotto nel sottotetto. Da ricordare anche il grande scalone, in marmo di Botticino e ringhiera in ferro battuto, che dal seminterrato porta al primo piano.
A seguito della caduta del regime fascista e a causa dei rivolgimenti politici, essendo la famiglia impegnata politicamente ed avendo ricoperto Giovanni Ronchi la carica di podestà, molti arredi e suppellettili vennero frettolosamente svenduti e la villa fu donata al Comune con lo scopo di collocarvi strutture di pubblica utilità, come testimonia anche una targa commemorativa posta nell’ingresso: “Questo palazzo divenne proprietà del Comune di Breno per liberalità disposta ed attuata dai fratelli Ronchi in memoria dei loro genitori ing. Gio(vanni) Battista Ronchi e Bice Caldani”.
Nei primi anni Sessanta un grande intervento, già da tempo previsto anche in un progetto dall'architetto Vittorio Montiglio, vide la risistemazione del parco antistante la villa, con la demolizione della grande recinzione, il ridimensionamento dei giardini e il drastico riadattamento della graziosa palazzina posta a fianco della dimora.
Lo stato attuale, in risposta alla funzionalità di un municipio, risulta dignitoso e permette la lettura e la visita da parte dei cittadini.
UN PO' DI STORIA
Non è facile stabilire con esattezza la data di costruzione della villa, ma è certo che quando il notaio Pietro Taglierini (nato a Borno nei primi anni del XVIII secolo) si trasferì a Breno acquistò una casa con cascinale e ampio terreno circostante. Nel corso degli anni il notaio ampliò la villa e dedicò molta cura anche al cascinale e al terrazzo. Alla sua morte la proprietà passò al figlio Stefano (1769-1846) che continuò l’opera paterna completando la ristrutturazione della casa e creando un parco separato dal terreno agricolo. Nel 1846 gli succedette il figlio Antonio (1815-1891), personaggio eminente sia in campo giuridico che in quello amministrativo-politico.
Fu consigliere provinciale e poi deputato del Parlamento Italiano; grande amico di Benedetto Cairoli ebbe anche l’onore di ospitare, nella villa di Breno, il futuro re Umberto I e il duca Amedeo d’Aosta durante una loro visita ufficiale in Valle Camonica. Cittadino benemerito, fu tra i fondatori della Banca di Valle Camonica e della Società Operaia di mutuo soccorso.
Fu lui che acquistò la proprietà degli eredi Giacomelli Gianmaria, il grande complesso di Marianna Ronchi (già Griffi-Sforza) e il brolo di Antonio Sigismondi. L’acquisto deve essere avvenuto dopo il 1860 perché la “Planimetria della nuova strada di attraversamento del centro abitato di Breno”, eseguita da Isidoro Rizzieri nel 1860, riporta ancora due proprietà confinanti: quella dei Taglierini e quella degli eredi Giacomelli.
Se l’acquisto delle proprietà Giacomelli e Ronchi Sigismondi è successivo al 1860, si può ipotizzare che la villa e l’adiacente villino siano stati realizzati verso la fine dell’800, prima ancora che sorgessero, lungo l’arteria principale del paese, le altre ville importanti (Villa Ronchi, De Michelis, Canevali e Gheza).
L’eclettismo che caratterizzerà il novecento e che in Breno giungerà all’apice con Villa Gheza, sembra aver già trovato segnali in Antonio Taglierini. Per la realizzazione della villa si affidò ad un architetto predisposto all’innovazione che seppe fondere elementi nuovi con elementi tradizionali ottenendo un’insolita, ma non disarmonica commistione tra architettura alpina e decorazioni “Liberty”.
Alla morte dell’Avvocato, la proprietà passò al figlio Giuseppe (1851-1896) che volle rinnovare la facciata della Villa e dare un nuovo assetto al parco. Con l’aiuto dell’avvocato Zanoncelli da Lodi (fratello della moglie Maria e grande appassionato di giardinaggio) il parco fu ridisegnato: vennero tracciati sentieri in ghiaietto, create nuove aiuole, piantumate altre essenze arboree, realizzate grotte in tufo di cui una a ponte sulla quale fu poi aggiunta una statua. Fu poi decorata la facciata della villa e l’avv. Zanoncelli disegnò personalmente i fregi con foglie d’acanto. Anche la cascina subì notevoli trasformazioni e venne poi utilizzata come scuderia.
Alla fine dell’800 purtroppo scoppiò un terribile incendio che arrecò ingenti danni alla villa. I Taglierini dovettero abbandonare l’abitazione e trasferirsi nella dependance che venne completamente ristrutturata e abbellita con l’aggiunta di uno sbalorditivo.
Alla morte di Giuseppe i suoi beni passarono ai figli Antonio e Beatrice. Purtroppo l’ingegnere tenente Antonio (1889-1917) morì combattendo sul Carso; aveva però lasciato un testamento in cui disponeva che il suo patrimonio fosse lasciato ai Brenesi “a parziale sollievo di tante miserie e al miglioramento morale del paese natio”.
Questo importante lascito consentì l’acquisto di una colonia marina (che portò il suo nome) per un migliore sviluppo fisico dei bambini, di contribuire alla costruzione dell’Ospedale, delle scuole e di offrire un sostegno ad anziani e bisognosi.
Beatrice Taglierini, agli inizi del 1900, aveva sposato l’ingegnere piemontese Giovanni Montiglio e lo aveva seguito a Roma dove lavorava per l’”Ansaldo”. Rimase però sempre legata a Breno dove ritornava spesso e dove si trasferì definitivamente quando il marito si mise a riposo.
Dal loro matrimonio erano nati cinque figli: Iolanda, Vittorio, Maria Antonietta, Ottavio e Antonio. Iolanda restò a Roma dove si era sposata e Maria Antonietta morì a soli cinque anni. A Breno rimasero solo i tre maschi: Vittorio, Ottavio e Antonio.
A Vittorio era stato dato il nome dello zio Vittorio Montiglio, il fanciullo soldato che a soli quattordici anni fuggì dell’America del Sud per raggiungere i fratelli Umberto e Giovanni, volontari della prima guerra mondiale (entrambi “medaglia d’argento” per essersi rispettivamente distinti nella battaglia del Piave e in quella del monte Cimone).
Negli anni successivi si spense la madre Beatrice e più tardi il Dott. Ottavio di cui resta un ricordo molto vivo per l’indiscussa competenza professionale, la grande disponibilità e anche per la sua passione sportiva.
Ora a Breno vivono l’ultimo figlio di donna Beatrice, l’architetto Antonio che fu anche sindaco di Breno, i suoi figli e quelli del dott. Ottavio e a loro spetterà il compito di conservare con cura, così come è stato fatto finora, la villa, il villino e il parco.
La villa, a tre piani più il sottotetto, è caratterizzata dalla terrazza panoramica, elemento ricorrente nelle composizioni architettoniche del tempo (come le pregevoli cancellate e le ringhiere in ferro battuto degli ingressi e della terrazza) da cui godere lo spettacolo della natura circostante.
Accanto alla villa grande s’innalza anche un villino, ovviamente di dimensioni più ridotte, ma di grande interesse architettonico per l’insolita commistione di stili. Decorazioni “Liberty” sono presenti, oltre che all’esterno anche nell’interno degli edifici.
UN PO' DI STORIA
Situata nella località Cambrant di Breno la storia di Villa De Michelis è strettamente connessa con le vicende della contrada, attestata dal XVI secolo, quando lì sorgevano una cappella di proprietà della famiglia Guelfi di Breno e alcuni fabbricati limitrofi in uso ad una Confraternita. Nel corso dei secoli, la Cappella venne inglobata ad un edificio residenziale, con successivi ampliamenti e sopraelevazioni, fino ad arrivare alla realizzazione di una villa con annessa casa colonica. Dalla fine del XIX sec. Cambrant divenne proprietà del piemontese Vincenzo De Michelis, che vi si stabilì: nasceva così l’omonima Villa. Al piano terra, il salone costituito dall’antica cappella Guelfi, è decorato da affreschi del XVI secolo, di autore sconosciuto, che richiama lo stile di Girolamo Romanino che in quel periodo era impegnato ad affrescare la Chiesa di Sant’Antonio a Breno.
ULTERIORI INFORMAZIONI
A dialogo con la collina del Castello, lo sperone di roccia del Cerreto, allunga le sue propaggini e s'interrompe bruscamente con la forra che chiude a sud il paese di Breno. Poco fuori il centro di Breno, la località Cambrant si trova al di sopra di questa strozzatura in una felice posizione: un pianoro che risale verso i boschi e si addentra verso il confine con la frazione di Mezzarro e il comune di Bienno. Stando alle fonti l'edificio preesistente, i terreni e l'area boschiva, dove si praticava l'uccellagione, appartenevano alla famiglia Guelfi, ma si menzionano diversi cambi di proprietà. Agli inizi del Novecento la casa e i terreni vengono acquistati da Vincenzo De Michelis, da cui discendono gli attuali proprietari.
Negli anni Trenta del Novecento importanti interventi di restauro interessano la villa, che viene interamente ristrutturata con l'erezione della caratteristica torretta, il cortile con gli edifici circostanti, è costruita la scalinata che dal giardino conduce al paese ed è riallestito il giardino.
Con la costruzione della statale che da Breno porta a Bienno è approntato il viale di accesso pergolato con la cancellata e l'edicola dedicata a sant'Uberto, patrono dei cacciatori e tradizionalmente invocato contro i morsi dei cani e la rabbia.
Il corpo principale della villa presenta tracce di elementi architettonici di età rinascimentale e nel cortile uno stemma in arenaria rossa riporta la data 1653. Testimonianze delle stratificazioni cronologiche hanno conferma nelle iscrizioni sugli architravi e su una vasca collocata nell'aia retrostante l'edificio, dove le date oscillano dal XVI al XVIII secolo. Tracce di affreschi datati tra la fine del XVI e gli inizi del XVII sono conservati in un ambiente voltato a piano terra: padre Gregorio nei Curiosi trattenimenti ipotizzava addirittura la mano del Romanino, ma più verosimilmente si tratterebbe di un suo allievo o collaboratore.
Soggetto degli affreschi, pervenuti integri (ad eccezione del gruppo dei dolorosi) sono i quindici Misteri del Rosario, raggruppati in gaudiosi, dolorosi e gloriosi; uno scorcio di Breno e dei suoi principali edifici si può riconoscere nel riquadro con la Natività.
Fino agli anni Sessanta del Novecento accanto alla casa padronale era abitata una casa contadina di affittuari che coltivavano e si prendevano cura delle terre, la struttura, oltre alla stalla e alla cantina era dotata di un pozzo e un forno interni.
UN PO' DI STORIA
Villa Gheza non è una villa qualunque, a partire da colui che l’ha fortemente voluta negli anni Trenta e che ha realizzato tra il 1930 ed il 1935.
L’artefice dell’edificio è Maffeo Gheza, avvocato nato a Piamborno nel 1875 e che, dopo gli studi di Giurisprudenza a Torino, decise di tornare nella sua amata Vallecamonica, a Breno per la precisione, dove decise di impegnarsi nelle numerose attività che lo vedevano coinvolto. la planimetria richiama le ville dell’Ottocento: un aspetto che andrebbe a dimostrare che Gheza non visitò mai direttamente l’Oriente, ma esaminò numerosi documenti dell’epoca sulle sue costruzioni, sebbene partecipò a numerose esposizioni universali, dove vide alcuni padiglioni rappresentanti questo stile. Pare, infatti, che l’avvocato abbia preso spunto principalmente dall’Alhambra di Granada, una vera e propria città murata meta di numerosi turisti occidentali proprio negli anni precedenti la realizzazione della Villa.
ULTERIORI INFORMAZIONI
Villa Gheza sorge a pochi passi dal Municipio e rappresenta un unicum artistico-architettonico in tutta la Valle. La struttura nasce dalla personalità curiosa e versatile dell'avvocato Maffeo Gheza, che ispirandosi a modelli esotici e moreschi, desiderava per la sua famiglia una residenza da Mille e una notte.
Influenzato dall'estetica eclettica, sviluppatasi a inizio secolo in clima coloniale e divulgata grazie alle esposizioni internazionali, è proprio lo stesso Gheza a proporre con disegni, schizzi e progetti, numerose soluzioni all'artista bergamasco Eugenio Bertacchi, che lavora alla decorazione della villa fino a tutto il 1935.
La ricerca di preziosità nella reinvenzione e citazione di formule arabeggianti si fonde con la cultura popolare e la fiducia nel lavoro: lungo il muro di cinta esterno, in un gioco che mescola grafismi cufici sinistrorsi a massime ed esortazioni si possono leggere: "Spetta all' uomo conquistarsi la vita di lui degna", "L'avvenire sarà di chi non lo avrà temuto", "Raddoppierete il frutto del lavoro eseguendolo con entusiasmo".
Anche nel portico di accesso, in caratteri vagamente mediorientali, che si fondono con la decorazione floreale, si legge la massima più cara all'avvocato: "La gente dice. Cosa dice? Lascia che dica".
L'accesso alla Villa dall'attuale via Mazzini è caratterizzato da un portico con archi arabeggianti con decorazioni geometriche, che apre su un viale decorato da ciottoli dipinti, dal quale si snodano vialetti e si aprono angoli verdi con balaustre, tavoli e panchine.
La struttura architettonica, completata esternamente (e internamente solo per il primo piano) nel 1935, consta di quattro livelli, e termina con la grande terrazza sormontata dalla torretta panoramica.
La pianta rettangolare della villa richiama più i modelli architettonici italiani che modelli moreschi, ma sicuramente di influenza araba–indiana sono il tetto-terrazza che un tempo ospitava i giardini pensili, lo spettacolare belvedere ottagonale e il lungo porticato di stile moresco che si specchia in un laghetto alimentato da cascatelle.
Sempre di influenza orientale è l’ingresso al piano nobile, costituito da una sala poligonale che, al centro, ha una fontana con lampada opalinata sulla quale scorreva l’acqua. Intorno all’atrio si aprono la sala da pranzo, la cucina, il salotto della musica, lo studio e la camera da letto.
La sala da pranzo si affaccia sul jardin d’hiver chiuso da vetrate di stile neogotico; più che una serra vera e propria era una grande veranda da poter sfruttare soprattutto nei periodi invernali. Lo fa supporre la presenza, nel locale, di una sorta di scaldavivande inserito nel termosifone.
Oltre alla stupenda sala da pranzo il locale che suscita maggior interesse per la ricchezza delle decorazioni e l’originalità dell’arredamento è senza dubbio la camera da letto. Soffitto, pareti e pavimento sono interamente decorati con tecniche e materiali molto diversi e preziosi ma che si fondono senza contrasti. La fusione tra orientalismo ed eclettismo è molto evidente nell’arredamento, soprattutto nei letti in noce, con intarsi e particolari in rame e mosaici in madreperla.
Realizzati da Alfredo Cappellini su progetto dello stesso Gheza, si ispirano ai mobili Bugatti molto ammirati in quegli anni.L'unicità dell'opera voluta da Maffeo Gheza sta nella compenetrazione con il giardino: grazie ai consigli del suocero, il professor Otto Penzig, che era docente di botanica all'università di Genova, numerose e variegate sono le specie arboree introdotte, concorrono a creare angoli suggestivi e ad offrire scorci caratteristici.