Il Castello di Breno
Il Castello di Breno non è solo un luogo suggestivo, ma un monumento ricco di storia.
Fra le sue mura per centinaia di anni si sono dipanate le vite di dame e cavalieri, umili servitori e ricchi signori, artigiani e soldati che hanno animato la rocca e il cui ricordo sembra ancora aleggiare negli ambienti e nei cortili.
Un po' di storia
Il Castello di Breno non è solo un luogo suggestivo, ma un monumento ricco di storia. Fra le sue mura per centinaia di anni si sono dipanate le vite di dame e cavalieri, umili servitori e ricchi signori, artigiani e soldati che hanno animato la rocca e il cui ricordo sembra ancora aleggiare negli ambienti e nei cortili.
Il luogo
La roccaforte si distende su un’ampia collina che si erge a sbarrare il fondovalle camuno.
Pur raggiungibile con una passeggiata di pochi minuti dal centro cittadino, il castello proietta immediatamente il visitatore in una dimensione lontana dal qui e dall’ora, che predispone all’ascolto della sua affascinante storia. Sorto su un luogo che si rivelato un sito archeologico fondamentale per la conoscenza della Valle Camonica preistorica, il castello può vantare una lunga evoluzione: da fortificazione altomedievale a elegante insieme di case-torri e palazzi circondati da cinta muraria nel Basso Medioevo, fino all’ultima fase come roccaforte militare in Età Moderna.
L'area del maniero
Ciò che il visitatore vede non è in realtà un «castello», ma un complicato tessuto di costruzioni fatte in secoli diversi per scopi diversi. In questo senso la parola castello tende a mascherare una identità storica multiforme, che invece può essere riscoperta e capita.
Si potrà gustare a fondo la visita al Castello se si tengono a mente alcuni dati fondamentali. La prima nozione è che il Castello nacque come un insieme di palazzi e torri, al tempo di Federico I «Barbarossa» (1100-1200), e fu poi trasformato in roccaforte militare dalla repubblica di Venezia, signora della Valcamonica nei secoli XV e XVI. I segni materiali della storia secolare si osservano nell’intreccio complicato degli edifici e nei rifacimenti delle murature. Una seconda nozione è che il Castello fa parte integrante della collina. Anzitutto ne domina e chiude la cima, accentuandone le brusche forme naturali.
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VISITA GUIDATA DEL MANIERO
Piazza Generale Ronchi
Il Castello di Breno è un complesso fortificato che ha una storia lunga migliaia di anni, ricca di vicende, personaggi, segreti, leggende e curiosità.
Piazza Generale Ronchi è tra le più belle e più grandi della Valle Camonica, abbracciata da antichi palazzi e impreziosita, al centro, da una fontana. Antica piazza d’armi, da qui partivano gli assedi alla rocca.
Durante i lavori di sistemazione della piazza sono emersi i resti di un abitato dell’età del Bronzo e sepolture dell’età del Rame e del Ferro, tra cui quella di un giovane di rango e quella di un cavallo. Sulla parete a destra della salita, in un grande affresco è rappresenta la dea Minerva, con l’elmo in testa e una lunga lancia. È un’opera di Ozmo, artista di street art di fama internazionale, realizzata nel 2015 per il progetto Wall in Art. Minerva era la divinità principale venerata nel grande santuario che si trova in località Spinera, a pochi passi da Breno.
A sinistra della salita si trova Palazzo Ronchi Franceschetti, costruito intorno alla metà del 1700. Dipinta sulla facciata c’è una curiosa figura, una signora che, da secoli, osserva i passanti dalla sua finestra. Si racconta che da qui partisse uno dei passaggi segreti verso il Castello.
La leggenda di Leutelmonte
Una leggenda narra che Piazza generale Ronchi, a Breno, più conosciuta come “piazza mercato”, sia stata teatro di un duello epico, avvenuto quasi mille anni fa.
Tutto comincia quando il signore del Castello viene sfidato dal signore del vicino Castello di Cimbergo. Non conosciamo il nome del nobile brenese ma sappiamo che era già molto avanti negli anni. non aveva figli maschi e allora convocò il cavaliere Leutelmonte da Esine, per combattere al suo posto. La sfida si disputò proprio nella piazza davanti a voi. Leutelmonte, abile e forte, vinse il combattimento e in dono ricevette dal signore del Castello di Breno una chioccia tutta d’oro con dodici pulcini. Secondo alcuni, lo strabiliante tesoro si troverebbe nelle segrete di Torre Federici a Cividate Camuno; altri, invece, sono certi che la chioccia e i pulcini d’oro siano sepolti in qualche angolo nascosto del Castello di Breno.
Chi era Leutelmonte? La sua storia per molti secoli è stata ritenuta vera, ripresa nell’Ottocento anche dallo scrittore bresciano Lorenzo Ercoliani, nei romanzi storici “I Valvassori Bresciani” e “Leutelmonte”. L’illustre cavaliere si chiamava in origine Guglielmo ed era cresciuto nell’eremo di Bienno, un borgo che confina con Breno. Qui conobbe frate Lotario, che in gioventù aveva combattuto come soldato mercenario, il quale gli avrebbe insegnato di nascosto a tirare di spada. Guglielmo diventò un valente guerriero, anzi, un temibile assassino che terrorizzava i nemici.
Si dice che fosse abilissimo nella caccia all’orso e che un giorno, nei boschi, conobbe Emma, figlia di Grimoaldo, valvassino di Plemo, e se ne innamorò: lei però doveva sposare un certo Azzone Federici di Brescia, commissario regio della Valcamonica, nominato nientemeno che dall’imperatore Enrico IV. Guglielmo per la disperazione fuggì in Germania e il suo cuore divenne gelido e pieno di odio. Dopo qualche tempo tornò in Italia, si stabilì nella rocca di Manerba, sul lago di Garda, e divenne signore della Valtenesi; tornò anche a Breno, in Valle Camonica, per liberare una certa Engarda, figlia di Ardiccio degli Aimoni, signore di Brescia, imprigionata nel Castello. Il prode uccise le guardie, la liberò e infine la condusse con sé a Manerba. Leutelmonte morì alle porte di Brescia, combattendo con un esercito di settemila soldati contro Ardiccio, accanto ai suoi fidati compagni Giraldo e Mazzucco. Nel palazzo municipale di Esine, dove una via ancora oggi porta il suo nome, c’è un affresco che lo ritrae, con uno sguardo altero, abbigliato con un’armatura di acciaio, sulle spalle un mantello rosso e una testa leonina come decorazione.
La salita verso il castello
La salita verso il Castello offre una vista sul centro storico di Breno con le sue frazioni: Astrio, Pescarzo, Mezzarro e Pilo Campogrande. Breno si trova nel cuore della Valle Camonica, in una forra scavata dal fiume Oglio, che nei millenni ha plasmato
anche la rupe del Castello. Più che un vero e proprio castello, quello di Breno è un complesso fortificato, fatto di mura possenti, torri e palazzi, costruito probabilmente intorno al XII secolo, quando Federico Barbarossa attraversò la Valle Camonica con il suo esercito.
Qualche tempo dopo arrivarono i Visconti, signori di Milano, a cui la Valle offrì la propria sudditanza. Durante il periodo della Serenissima Repubblica di Venezia, a partire dal Quattrocento, il colle diventò una roccaforte militare, con ampliamenti e modifiche alla struttura, rinnovata e potenziata perché cominciavano a diffondersi le armi da fuoco.
Il Castello divenne poi residenza del Capitano di Valle, il più alto rappresentante del potere militare di Venezia nei Domini di Terraferma. Verso la fine del Cinquecento il doge ritenne che il complesso non fosse più di suo interesse e quindi lo vendette al Comune di Breno.
Lo stemma di Breno riprende i due simboli, l’aquila e il cervo, che erano rappresentati nel vessillo della Comunità di Valle Camonica.
Il blasone di Breno è anche uno dei cinque stemmi principali della Provincia di Brescia, accanto a quello della città e quelli di Chiari, Salò e Verolanuova.
Il diploma di Federico Barbarossa
Sono tanti i personaggi storici legati, in qualche modo, a Breno, come Francesco Bussone detto il Carmagnola: nel 1421 conquistò il Castello per conto dei Visconti, signori di Milano; alcuni anni dopo, lo riconquisterà per la Serenissima Repubblica di Venezia. Ancora, Bartolomeo Colleoni, che nel 1453 giunge sotto le mura della rocca con un esercito di 1500 soldati, per aiutare il milanese Francesco Sforza a sconfiggere gli assediati, rappresentati dalle più importanti famiglie brenesi e camune di parte guelfa.
Proprio in questa occasione, per la prima volta in Valle Camonica, il Colleoni utilizzò i cannoni e l’artiglieria da fuoco. Tra tutti però spicca l’imperatore Federico Barbarossa, che nel 1164 concesse alcuni privilegi alla Valle Camonica, tra cui quello di eleggere i propri magistrati, come indicato in un manoscritto del 1311, in cui re Enrico (o Arrigo) VII di Lussemburgo conferma i benefici concessi dall’imperatore ai Camuni.
Il diploma del 1311, che riporta anche il monogramma del Barbarossa, è il documento più antico conservato negli archivi del CaMus - Museo camuno di Breno, dove è possibile visitare una collezione di dipinti e ritratti, di reperti e di arredi sacri e civili, che ricostruiscono la storia della Valle Camonica. L’originale, portato fino a Milano da un certo Corrado da Edolo, è andato perduto e il manoscritto tuttora esistente sarebbe una trascrizione eseguita dalla cancelleria di Enrico VII.
Pare che Federico Barbarossa intervenne anche nella lunga controversia tra gli abitanti di Borno, in Valle Camonica, e della vicina Val di Scalve, per il possesso degli alpeggi e il controllo delle vie di comunicazione tra le due valli, entrambe ricche di risorse naturali, tra cui legno e miniere. Barbarossa avrebbe favorito i Camuni, filoghibellini, perché stavano dalla sua parte. Infine, tra i personaggi importanti passati dal castello di Breno c’è anche Carlomagno, ma di lui vi raccontiamo in un’altra leggenda.
Tra il primo ingresso e il rivellino
La cinta fortificata serviva a proteggere il complesso, formato da torri, cortili e palazzi. Aveva una funzione militare, strategica e difensiva.
Le mura sorgono sugli speroni rocciosi e seguono la conformazione naturale del colle, con tratti concentrici che procedono verso la sommità.
Per accedere al Castello, si passa attraverso il rivellino, presidiato da un cancello di ferro, una struttura che proteggeva la porta d’accesso dagli attacchi dei nemici: costringeva gli assalitori a fermarsi in uno spazio molto stretto e a offrire il fianco a chi difendeva la rocca. I costruttori hanno utilizzato tecniche ed espedienti d’avanguardia, come terrapieni e bastioni, menzionati nei più importanti trattati di architettura militare dell’epoca.
Sulla sinistra del cortile si vede una parte di mura con merli squadrati alla guelfa.
Il Castello di Breno ha conosciuto diversi assedi e grandi condottieri, tra cui il Carmagnola e Bartolomeo Colleoni.
A Breno però non ci sono stati solo scontri e combattimenti: la cittadina, infatti, è ricordata anche per la cosiddetta “pace di Breno”, sancita nel 1397 al ponte della Minerva, in presenza del duca Gian Galeazzo Visconti, per pacificare i contrasti tra i guelfi e i ghibellini.
Qualche anno dopo, nel 1455, per fare cessare le contese con Milano, Venezia ordinerà la distruzione di tutte le fortezze della Valle, tranne quelle di Breno, Cimbergo e Lozio, risparmiate perché i cittadini si erano schierati dalla parte della Serenissima.
Attraversato il cortile, accanto alla torre porta, a destra, è esposta una scultura dell’artista camuna Franca Ghitti: il titolo è “Cancello delle Vicinie”, un omaggio alla comunità, realizzata con gli sfridi di ferro recuperati nelle fucine, uniti in tondi e file parallele. La vicinia era un’istituzione amministrativa, formata dai capifamiglia, che si occupava della gestione delle risorse e del bene comune.
Rosmunda e l'airone
Davanti a Villa Ronchi, sede del municipio di Breno, dove una volta c’era il giardino della residenza adesso c’è una grande fontana, con un elegante airone al centro, che è diventato uno dei simboli della cittadina, perché è collegato a uno nei numerosi assedi subiti dal Castello nel corso del Medioevo.
Si narra che la rocca fosse considerata inespugnabile, soprattutto per la sua posizione privilegiata, su un colle roccioso, protetto da strapiombi e mura possenti. Superare la barriera della cerchia era un’impresa ardua e quindi l’unica soluzione era prendere gli assediati per fame o per sete.
Quello che però non avevano considerato gli assedianti era che spesso le guerre e le battaglie si vincono con l’astuzia e la strategia, più che con le armi.
Il signore del Castello possedeva uno splendido esemplare di airone, che aveva ammaestrato: l’uccello volava dalla sommità della rocca fino alle sponde del fiume Oglio, che scorre sul fondovalle, pescava i grossi e gustosi pesci d’acqua dolce e li portava al castellano. Per mostrare ai nemici che non avevano certo problemi di cibo, il castellano si faceva vedere mentre gettava questi grossi pesci ai cani da guardia. In realtà, tutta questa abbondanza ostentata era uno stratagemma ma ciò bastava per far credere agli assedianti che di cibo ne avevano parecchio e che riuscivano, in qualche modo, ad approvvigionarsi e quindi a resistere.
Si narrava anche che il castello fosse collegato con l’esterno da almeno due passaggi segreti, utilizzati come via di fuga o come transiti per i rifornimenti: uno portava fino all’Oglio e l’altro collegava la fortezza al convento dei Cappuccini, situato in località Cambran; forse c’era un altro passaggio, che sbucava in piazza Mercato e collegava l’interno della rocca con l’edificio detto “albergo Fumo”.
Come andò a finire la storia dell’airone? Dopo un po’ di tempo, stremati dallo sforzo di un assedio che si prolungava oltre misura, i nemici se ne andarono.
Tra i personaggi che popolano le leggende legate al Castello di Breno ce n’è uno, anzi, una, di cui non conosciamo il nome, perché si è perso nel tempo. La chiameremo Rosmunda.
La vicenda accadde sempre durante un assedio: per convincere i castellani ad arrendersi, venne portata sotto le mura la figlia del capitano delle guardie, la bellissima Rosmunda. In alcune versioni della leggenda, la ragazza era completamente nuda, esposta alle risate e alle battute grevi dei soldati mercenari; in altre, non si trattava della figlia ma del padre del capitano, anziano e malconcio, sequestrato per smuovere gli animi degli assediati.
In ogni caso, l’espediente funzionò e gli assediati si arresero. Fa riferimento al Castello di Breno anche un noto detto locale, “fubià ’n Castel”, che significa “fischiare in Castello”: si dice per indicare a qualcuno che resterà a bocca asciutta, o a mani vuote, e quindi deve smetterla di indaffararsi invano.
Davanti alla chiesa
Superato l’ingresso, si entra all’interno del grande cortile. Sulla sinistra sono riconoscibili i resti della chiesa medievale di San Michele Arcangelo.
La cappella in arce del Castello sarebbe di fondazione longobarda, quindi precedente la costruzione del complesso fortificato.
L’intitolazione a San Michele Arcangelo ricorre anche in alcune delle chiese più antiche della Valle Camonica ed è citata in un documento del 1220.
In origine la chiesa aveva una sola navata, che terminava con un’abside, poi ne è stata aggiunta un’altra. La facciata della chiesa, più tarda, è inglobata nell’alto muro che termina con la merlatura alla guelfa, in cui si distingue anche una piccola monofora, sovrastata da un’apertura a croce. A fianco c’era una cappella funeraria, dove sono state ritrovate cinque tombe, datate dal VI al XII secolo dC, tra cui quella di un bambino. La chiesa fu demolita verso la fine del 1500, quando Venezia vendette il Castello al Comune di Breno.
Verso il lato opposto ci sono due torri: quella d’ingresso, chiamata anche torre porta, e la torre di avvistamento.
Verso nord svetta l’imponente torre grande. Le torri hanno strutture murarie in pietra tagliata; i ripiani interni, detti orizzontamenti, erano di legno.
L’alta muratura sulla sinistra della chiesa apparteneva a un palazzo nobiliare di grandi dimensioni, forse di proprietà della famiglia Ronchi, di parte guelfa.
A pianta rettangolare, l’edificio era strutturato su due piani. Il muro presenta aperture, porte e finestre, alcune delle quali murate, e si vedono ancora i fori in cui si inserivano le travi di sostegno dei pavimenti.
San Michele Arcangelo, il Santo guerriero
La cappella del Castello di Breno è dedicata a San Michele Arcangelo, uno dei santi più popolari del Medioevo, presente nel Cristianesimo, nell’Ebraismo e nell’Islam.
Il culto di San Michele fu istituito dall’Imperatore Costantino nel 313 ma si diffuse soprattutto grazie ai Longobardi, dopo la loro conversione al Cattolicesimo, promossa da papa Gregorio Magno e sostenuta dalla regina Teodolinda che, secondo alcune leggende, attraversò la Valle Camonica.
I Longobardi scelsero San Michele come loro protettore anche per la somiglianza con il dio germanico Odino, che come l’Arcangelo brandisce la spada e lo scudo e accompagna le anime dei morti nell’oltretomba. I risvolti simbolici richiamano anche altri personaggi mitologici, come i pagani Ercole e Mitra.
San Michele è rappresentato come un militare a capo delle schiere celesti, mentre trafigge con una lancia il drago, simbolo del male, oppure mentre pesa le anime dei defunti con una bilancia, secondo quella che si definisce psicostasia, una pratica che richiama il dio egizio dei morti, Anubi. Durante la lotta di Lucifero contro Dio, San Michele sconfisse gli angeli ribelli.
Secondo l’Apocalisse, sarà proprio lui a suonare la tromba nel giorno del giudizio universale.
San Michele è anche il patrono delle forze armate, dei paracadutisti, di farmacisti, di doratori, commercianti, fabbricanti di bilance, giudici, maestri di scherma, radiologi ma era anche il protettore dei pellegrini medievali, invocato contro le malattie, lo scoraggiamento e le imboscate dei banditi.
Sono moltissime le chiese a lui dedicate che si trovano lungo i percorsi di pellegrinaggio più frequentati, come la Via Francigena e la Via Michaelica, conosciuta anche come Via dell’Angelo o Via Sacra Longobardorum, che unisce numerosi santuari dedicati a San Michele Arcangelo, allineati dalla Scozia fino a Gerusalemme, passando per la Francia e per l’Italia, da Torino al Gargano, attraverso Roma.
Secondo un’antica tradizione, una caratteristica di San Michele Arcangelo sarebbe quella di non ridere mai… Il culto di San Michele Arcangelo è molto diffuso in Valle Camonica, celebrato soprattutto in piccole cappelle erette in cima a un rilievo, forse un tempo luoghi di culto pagani, come a Berzo Inferiore, oppure in rocche e castelli, come a Breno, Borno, Gianico, in alta Valle Camonica a Mù di Edolo e a Davena di Vezza d’Oglio: molti di questi siti corrispondono a quelli indicati nella leggenda di Carlomagno.
I santi più antichi della Valle Camonica sono spesso santi militari o cavalieri, come Costanzo, Glisente paladino di Carlomagno, e Obizio, che dopo la sanguinosa battaglia della Malamorte a Rudiano ha una visione dell’inferno e decide di ritirarsi nel monastero di Santa Giulia a Brescia, dove Girolamo Romanino ha dipinto la sua storia.
Davanti alla torre grande
La grande torre del Castello è conosciuta anche come Torre Canevali, dal cognome dell’illustre brenese che presentò il progetto di restauro dell’edificio agli inizi del Novecento.
È la parte meglio conservata del complesso.
Alta una ventina di metri, è un simbolo di potere: dalla sommità del Castello fronteggiava le torri che si trovavano in paese.
La tradizione dice che un tempo qui c’erano due grandi torri: una merlata alla guelfa, appartenente alla famiglia dei Ronchi, l’altra alla ghibellina, di proprietà della famiglia Alberzoni.
I merli ghibellini sono quelli a coda di rondine, quelli guelfi invece sono squadrati e permettono di capire subito da che parte si schieravano i proprietari.
Quando i milanesi Visconti fortificarono il colle per ospitare il comandante militare e le guarnigioni, cambiarono anche le merlature, da guelfe a ghibelline: quelli attuali sulla torre grande sono un rifacimento recente.
I palazzi signorili del XI-XII secolo precedenti furono abbattuti durante la costruzione della cinta muraria, alla fine del Trecento; i muri perimetrali, sulla destra, vennero rialzati e rifiniti con merlature.
Ai piedi della torre grande sono stati effettuati scavi archeologici, che hanno restituito testimonianze molto importanti e che documentano la frequentazione del colle del Castello, a partire da circa undicimila anni fa.
Qui hanno vissuto i primi brenesi: sono emersi i resti di un bivacco paleolitico e di abitazioni del Neolitico, con recipienti di ceramica tipici di quest’area, oltre a una sepoltura e oggetti dell’Età del Rame e del Ferro.
Clotilde, la principessa delle Camunerie
Una delle tradizioni più apprezzate della Valle Camonica è Camunerie, una rievocazione storica che si svolge proprio tra le mura del Castello di Breno, con dimostrazioni di abili falconieri, terrificanti mangiafuoco, musici, arcieri e giullari, abbigliati con costumi medievali.
Camunerie racconta la vicenda della principessa Clotilde, una bellissima fanciulla, figlia dei nobili castellani, che andrà in sposa a chi vincerà i combattimenti in suo onore.
È il re in persona a inaugurare l’inizio della contesa, a cui partecipano le nobili famiglie dei Cattaneo, dei Ronchi, degli Alberzoni, dei Sigismondi, dei Griffi, dei Gheza, dei Federici e dei Leoni, con otto giovani rampolli che si fronteggiano in duelli d’armi, d’agilità e di forza, per conquistare la mano di Clotilde, il cui nome germanico significa “illustre guerriera”.
La tenzone si svolge davanti a un numeroso pubblico di cittadini brenesi e di visitatori, giunti da ogni angolo della Valle Camonica e oltre per gustare le prelibatezze delle locande brenesi e acquistare nei mercatini i prodotti locali.
Il vincitore però non sa che il cuore di Clotilde appartiene già a un altro innamorato e la triste principessa, per non andare incontro a una vita infelice, sceglie - solo per finta, nella rievocazione storica - di lanciarsi dalla torre più alta del Castello.
Se alzate lo sguardo, vedete davanti a voi i pendii che da Breno, in Valcamonica, salgono verso il Passo Crocedomini e il Passo del Maniva, oltre il quale ci sono la Val Sabbia e la Val Trompia.
A un certo punto, s’incontra Cima Caldoline, il cui profilo ricorda il volto di una ragazza: è quello di Emanuella, un’altra bellissima principessa imprigionata con un incantesimo nelle montagne. Colombano, giovane montanaro, la vide e se ne innamorò.
Cercò allora di liberarla, ma il Monte Maniva lo travolse con grandi pietre e lo fece precipitare in un baratro profondissimo, da cui non riemerse mai più.
Emanuella pianse tutte le lacrime che aveva e queste si trasformarono in ruscelli, che fecero nascere mille coloratissimi fiori.
La terrazza oltre il portale
Breno è circondato dalle montagne del Parco dell’Adamello, tra cui spicca il Pizzo Badile Camuno, alto 2435 metri.
Il toponimo Breno sarebbe legato al celtico brig, che significa “monte”, oppure alla voce gallica briù o braè, intreccio di pali a scopo difensivo. Nel centro abitato spiccano i campanili di alcune delle chiese più belle della Valle, luoghi d’arte e di storia.
Il più alto, sormontato da una cupola settecentesca a cipolla, appartiene al duomo del Santissimo Salvatore.
Davanti al duomo, sulla destra, c’è la chiesa di Sant’Antonio Abate, costruita nel XIV secolo, dove Girolamo Romanino ha raffigurato le Storie del profeta Daniele e dove Callisto Piazza ha dipinto la pala rinascimentale dell’altare maggiore.
Dietro il campanile del duomo s’intravede quello austero, in stile romanico, della chiesa di San Maurizio, antica parrocchiale di Breno; all’interno, il Compianto su Cristo morto di Beniamino Simoni, capolavoro di scultura lignea.
Un poco più in alto, appoggiato al declivio, si vede il portico di San Valentino, chiesa quattrocentesca affrescata da pittori dell’ambito di Giovan Pietro Da Cemmo.
Tra i vicoli del centro storico di Breno ci s’imbatte in casetorri medievali e in dimore signorili, come l’orientaleggiante Villa Gheza, l’elegante Villa Montiglio Taglierini e Villa Ronchi, sede del municipio.
Nel Palazzo della cultura si può vistare il CaMus, Museo camuno, collezione di dipinti, ritratti e arredi sacri e civili che ricostruiscono la storia della Valle Camonica.
A Montepiano c’è una delle panchine giganti del Big bench Community project, promosso dal designer statunitense Chris Bangle a sostegno delle comunità e del turismo locali.
La leggenda di Carlomagno nel cuore delle alpi
Diversi secoli fa si è diffusa una leggenda secondo la quale Carlomagno, re dei Franchi, avrebbe attraversato la Valle Camonica, diretto verso Nord, durante un lungo viaggio cominciato a Pavia, continuato passando da Bergamo e poi da Lovere, nell’Alto Lago d’Iseo, e toccando, via via, diversi borghi della Valle Camonica, tra cui anche Breno.
Esistono diverse versioni della leggenda ma possiamo riassumerla così: Carlomagno, accompagnato da un papa, sette vescovi e un piccolo esercito di nobili franchi, intende combattere il paganesimo, le eresie e la presenza ebraica che ancora persistono nel cuore delle Alpi.
Lungo il percorso però incontra i nemici del Cristianesimo: se questi si convertono, il sovrano manifesta tutta la sua benevolenza e fa costruire una chiesa, concedendo doti e indulgenze, altrimenti distrugge la roccaforte del signorotto locale.
Secondo una di queste leggende, a Breno Carlomagno giunse con la propria armata sotto il Castello, dove viveva il re ebreo “Carnerio, o Cornelio Alano, nimicissimo della Fede Cattolica e del nome dei Francesi”.
Trovò molto da fare re Carlo in questa impresa - prosegue la leggenda - perché Carnerio “era provisto di corraggio, e di gente, per resistere a Carlo, poiché a gl’araldi, ch’andettero da lui a chiamare la resa, rispose risoluto, di non volere, né mutar religione né rendere la Fortezza, et esser pronto a difendersi fino all’ultima stilla di sangue”. Il Castello di Breno “era fortisimo, e quasi insuperabile per la natura del sito inaccessibile, come perché, oltre il gran numero de soldati valorosi, e ben provisti, molti nobili Longobardi“
Alla fine Carnerio, “per non ridursi all’estremo, ingannando gli aggressori con lasciare nella Fortezza facelle accese, et alcune sentinelle, se n’usci egli di nottetempo col resto delle sue genti, e con tutta la famiglia, seco conducendo il danaro et i più spediti arnesi” e fuggì nella vicina Val di Scalve, dove fu sconfitto.
Tornato a Breno, Carlomagno conquistò la fortezza: gli occupanti si convertirono al Cristianesimo e il re costruì una chiesa, dedicata a San Giovanni Battista.
Forse si tratta della chiesa che si trova a Pescarzo, perché la cappella del Castello di Breno è dedicata a San Michele Arcangelo.
Come dicevamo, non dobbiamo aspettarci troppe corrispondenze perché, appunto, si tratta di una leggenda, che si diffonde nel Tardo Medioevo ed è testimoniata anche nei secoli successivi in pergamene, iscrizioni, affreschi, resoconti e documenti, forse proprio per convalidare certi antichi benefici che ancora facevano capo a un territorio.
Nei luoghi citati dalla leggenda, infatti, sono sempre presenti una chiesa molto antica, la cui fondazione è quindi attribuita a Carlomagno, e i resti di rocche e castelli. Intorno a essi, continuano a vivere personaggi affascinanti, come re, paladini e cavalieri, fanciulle pie e devote.
Alla leggenda è ispirato anche il Cammino di Carlomagno, che vi invitiamo a scoprire e a percorrere.
Cortile dei palazzi
I cortili degli antichi palazzi, costruiti tra l’XI e il XV secolo, ancora prima della cerchia muraria, sono ancora circondati dai resti delle mura.
Le strutture erano utilizzate come casetorri dalle famiglie notabili brenesi, quando, durante il Medioevo, imperversavano gli scontri tra fazioni guelfe e ghibelline. Sugli speroni di roccia furono innalzati almeno tre gruppi di edifici, intervallati da vicoli, cortili e ortaglie.
Le tecniche costruttive rivelano l’alto rango dei proprietari.
Tra le mura si leggono le tracce di ingressi, volte, ballatoi, loggiati e cisterne per la raccolta dell’acqua.
Di fronte, verso sud, si staglia la torre di avvistamento.
Gli scavi archeologici hanno rilevato una stratificazione complessa, dalla preistoria al Medioevo. Alcuni reperti raccontano di fabbri che battevano armi e ferri di cavallo, di artigiani che lavoravano il corno e l’osso.
Dal Cinquecento, il Castello di Breno non è più indispensabile per il controllo del territorio e diventa una sorta di cava per materiale di riuso. Alla fine del Settecento si chiude la storia della Serenissima Repubblica di Venezia; seguono il periodo napoleonico, la dominazione austriaca e l’unità d’Italia.
Ai piedi del colle, nel 1944, durante la II guerra mondiale, venne scavato un tunnel per ospitare il rifugio antiaereo. Serviva per proteggere la popolazione contro eventuali incursioni aeree e bombardamenti e poteva ospitare circa 500 persone.
Il rifugio è visitabile, su richiesta e in alcune occasioni particolari, come durante il taglio del Bré, squisito formaggio d’alpeggio che viene fatto stagionare nei locali del rifugio per almeno 18 mesi.
Tra le delizie brenesi, ci sono anche i casoncelli alla camuna, la salsiccia di castrato e la spongada, un dolce soffice e profumato, da gustare con creme e marmellate ma anche con il salame, alla camuna.
Otruda Federici, storia camuna del secolo XV
Vi racconto adesso la triste vicenda di Otruda Federici: è una storia camuna del XV secolo, tratta da un racconto di Isotto Boccazzi, pubblicato nel 1912 e citata da Angelo Giorgi nel volume “Brescia contesa”.
Era un pomeriggio di maggio, poco prima del tramonto.
Berinzone, signore del Castello di Breno, chiamò a sé il capitano Hieronimo, il mastro delle bombarde Maffeo Ghezo e i prodi Canevalo e Tonolino perché dovevano andare a Brendibusio.
Poco dopo però, Berinzone si accorse che non poteva continuare per una ferita alla gamba. Allora ordinò ai suoi di proseguire, mentre lui tornò, zoppicando, al Castello.
Nel grande salone della rocca, in compagnia delle sue damigelle, la bionda e bellissima Otruda stava ricamando un grande tappeto da offrire all’altare maggiore della cappella di San Michele Arcangelo.
Ogni tanto, Otruda alzava lo sguardo e fissava un ciuffo di alberi sopra Ossimo, ricordandosi con un sospiro del bel Manolo: i suoi genitori, infatti, l’avevano data in sposa a Berinzone con l’inganno.
A un tratto si gira e vede Manolo dietro di lei: spaventata, cerca di mandarlo via ma lui la stringe e la bacia. “Non allarmarti, Otruda: Berinzone è andato a Brendibusio e quindi non c’è nessuno. Non stiamo facendo niente di male…”. “No no, ho un triste presentimento, vai via”, ribatte Otruda; lui la bacia ancora ma lei si ritrae. “O donna mia, quando vi vedo l’anima squilla di gaudio come se in casa tintinnassero mille sonagli d’oro!”, sussurra Manolo.
I due innamorati si siedono sopra uno degli stretti vani della merlatura del Castello.
Un grande cespuglio di rose li nasconde alla vista dei curiosi: giù, nel mezzo del cortile del Fumo, ai piedi della rocca, un gruppo di arcieri avvinazzati - Cimbrotto della Monara, Cino da Tavernola, Valverto e Scazzolo giocano ai dadi, tra urla e bestemmie.
Rapiti dalla passione, i due giovani non sentono che sta arrivando Berinzone, che sale sulla torre grande, adesso detta alla ghibellina, e li scorge “in intimo colloquio”.
Berinzone scende dalla torre, attraversa zoppicando i cortili e li raggiunge ma prima si nasconde dietro un cespuglio di rose e ascolta in segreto le loro parole d’amore: “M’ha detto una fatucchiera che le anime di coloro che non cedono al senso, si ritrovano nei cieli e trascorrono un’esistenza di sogno e di felicità.
Manolo, non tentarmi più! Lascia che la profezia della strega si avveri. ..”, mormora Otruda.
Stanno per baciarsi quando Berinzone salta fuori dal cespuglio come una furia selvaggia: “Una sfrenata voluttà di sangue e di strage avvampò nell’anima di Berinzone”, dice il racconto, e Berinzone spinge i due amanti nel vuoto. “Sacramento! - esclama spaventato Valverto, uno degli arcieri - che cosa accade mai?” - e insieme ai compagni esterrefatti si avvicina ai due corpi, ormai privi di vita.
Dall’alto della merlatura, Berinzone li guarda e ghigna.
Cimbrotto e Cino si avvicinano a Otruda e Manolo e li chiamano, invano. D’un tratto, sembra che dalle loro bocche escano due fiammelle, che salgono in alto, verso le stelle, e si dileguano nell’azzurro abisso del cielo.
La storia tragica di Otruda finisce con queste parole: “Maggio, nello sfolgorìo della sua fulgida magnificenza, cantava al sole ch’era scomparso dietro i monti di Borno, l’inno della primavera feconda e lieta che prorompeva da tutte le cose; e saliva saliva, ondeggiando verso i cieli; e accompagnava l’ascensione delle due anime sorelle, che, purificate dall’amore e dal dolore e liberate finalmente dalla morte, si riunivano, per sempre, nei regni della luce e della beatitudine eterna”.
Camminamento torre d'avvistamento
L’itinerario alla scoperta del Castello di Breno si conclude nei pressi della torre d’avvistamento.
Il camminamento offre un punto di osservazione privilegiato e di controllo del territorio sia verso Nord, dove c’è il Passo del Tonale, sia a sud, in direzione del Lago d’Iseo.
Sul fondovalle scorre il fiume Oglio, che attraversa la Valle Camonica, entra nel Lago d’Iseo e infine si getta nel Po.
Il fiume è affiancato dalla ciclovia dell’Oglio, lunga 280 chilometri, che attraversa un’ampia gamma di paesaggi e di natura.
La Valle Camonica, infatti, oltre a essere primo sito Unesco d’Italia per le incisioni rupestri, è anche Riserva Unesco della biosfera, con l’Alto Sebino.
A Breno e dintorni troviamo gran parte delle oltre 2300 specie botaniche - alberi, arbusti e fiori - che rendono unica al mondo la Valle Camonica.
Lungo il percorso della ciclovia s’incontra la chiesa cinquecentesca di Santa Maria al Ponte, conosciuto anche come “ponte della Minerva”.
Un poco più avanti, infatti, sulla sinistra, guardando verso sud, c’è il santuario dedicato alla dea Minerva.
Situata in località Spinera, l’area archeologica è raggiungibile a piedi attraverso un percorso che si snoda tra boschi e campi coltivati.
Il tempio è stato costruito in epoca romana nei pressi di un’ansa del fiume Oglio, su un precedente luogo di culto preistorico, in un sito ricco d’acqua, grotte e sorgenti.
Da qui proviene la magnifica statua di Minerva Hygeia, portatrice di salute, esposta nel museo archeologico di Cividate Camuno.
Minerva, la Dea della salute
A pochi minuti dal castello di Breno, sulla sponda sinistra del fiume Oglio, c’è una delle aree archeologiche più importanti della Valle Camonica: è il santuario di Minerva, situato in località Spinera, in un posto magico, immerso nel verde, davanti a una grotta naturale da cui sgorgava una sorgente.
Il tempio fu costruito in epoca romana; negli scavi, oltre a mosaici e affreschi, è emersa anche la presenza di un luogo di culto dedicato a una divinità femminile preistorica, adorata dagli antichi Camuni durante l’età del Ferro.
Tutti i reperti, tra cui una meravigliosa statua di Minerva Hygeia e una placchetta votiva di bronzo che rappresenterebbe la divinità preistorica, sono esposti nel museo archeologico di Cividate Camuno, a poca distanza da Breno.
Chi era Minerva Hygeia? Di solito è una divinità che si associa alla greca Atena ma ha molti tratti in comune anche con l’etrusca Menrva.
Quella di Spinera è colei che restituisce la salute, collegata alle grotte e all’acqua, simbolo di vita. Secondo una versione del mito, Atena nasce dalla testa di suo padre Zeus, che aveva ingoiato la madre, la ninfa Metis, perché lo rifiutava.
Minerva è la dea della strategia in guerra, della lealtà e delle virtù eroiche, della sapienza e delle arti: inventò il flauto, la tromba, i vasi di terracotta, l’aratro, il rastrello, il giogo per i buoi, la briglia per i cavalli, il cocchio, la nave; per prima insegnò la scienza dei numeri e tutte le arti considerate femminili, come cucinare, filare e tessere.
Minerva, infatti è anche la protettrice degli artigiani.
Di solito è rappresentata con il suo animale sacro, una civetta, con l’egida - una pelle di capra - che reca la testa della terribile Medusa, un mostro che pietrificava tutti coloro che osavano guardarla, decapitata da Perseo grazie a uno specchio donato proprio dalla dea.
Il santuario fu frequentato fino alla fine dell’impero romano e poi distrutto da un incendio, quando la cristianizzazione della Valle Camonica era ormai affermata.
Nel Medioevo un’inondazione del fiume Oglio seppellì per secoli le rovine del tempio con fango e detriti ma, nonostante questo, i brenesi non hanno mai dimenticato la loro antica dea: infatti, il ponte sul fiume Oglio che porta verso Spinera era già conosciuto, anche nei documenti antichi, proprio come “il ponte della Minerva”.